“Il quarto dito di Clara”
Scritto e diretto da Luca
Archibugi, protagonisti Pippo Di Marca e Veronica Zucchi
L’evento teatrale “Il quarto dito di Clara” è ispirato alla vita
e all’opera di Robert e Clara Schumann e al progressivo scivolamento del grande
musicista – che alcuni ritengono “il più grande di tutti i tempi” – nella
follia, a causa di disturbi nervosi provocati forse dalla sifilide,
dall’alcolismo, o da un grave disturbo bipolare, il tutto unito a una
melanconia senza rimedio. Robert si fascia l’anulare della mano destra per un
lungo periodo, nell’intento di rafforzarlo, ma il quarto dito rimane
semiparalizzato.
Non
gli resta – come ripiego paradossale – che la composizione. Nel titolo, il
quarto dito è quello di Clara: l’autore e regista, infatti, crea
un’identificazione fra Robert e Clara Schumann. Nell’opera, accanto a Robert
Schumann, emerge una gigantesca figura di donna, Clara Wieck: grande pianista –
la più celebre dell’Ottocento – divenuta moglie di Robert, dopo un tormentato
amore osteggiato dal padre di lei. Dopo le vessazioni del padre, una volta
divenuta moglie, non terminano per lei frustrazioni e dolori. Le viene impedito
di suonare il pianoforte quando Schumann compone, di andare in tournée, di dare
concerti – ha otto figli – e quando riesce ugualmente ad allontanarsi, il
marito si fa prendere dalla malinconia e si dà al bere.
Robert
viene internato in manicomio e due anni dopo, senza che Clara, che intanto vive
sotto lo stesso tetto di Johannes Brahms, sia mai andata a trovarlo, si lascia
morire di inedia. Per gli storiografi, a tutt’oggi, è assai improbabile che la
relazione fra Clara Schumann e Johannes Brahms fosse altro che platonica. In
questa rappresentazione l’unione di Robert e Clara appare come una sorta di
unione mistica. “Il mio personaggio” – spiega una dei due protagonisti,
Veronica Zucchi (Clara/Robert), in una recente intervista – è quello di una
anonima paziente psichiatrica che ritiene di essere Robert e Clara insieme:
vive come ingabbiata in una sorta di amore cristallizzato, esclusivo, che però
non è solo una prigione, ma è soprattutto una salvezza, un’illusione salvifica.
Ad
un certo punto, lo psichiatra che l’ha in cura, Secondo Filetti (Pippo Di
Marca), sprofonderà anch’egli in un’illusione di bellezza eterna: “Quel grande
amore che lei si è addossata sfida il deperimento, la caducità, e lei, insieme,
porta i due amanti in salvo, liberati dal fardello di una vita troppo breve. Io
non riesco a guardarla e a rimanere passibile. Lei ha ragione, vorrei
sprofondare anch’io in questa illusione (…) E che tutti diventino Clara e
Robert, l’amore, l’amicizia, il conforto”. Ecco, da un lato l’autore e regista
Luca Archibugi ha voluto restituire l’eccezionalità di questo amore;
dall’altro, tutto il testo è almeno doppio, raddoppiato o, addirittura,
triplicato: Clara è anche Robert e l’anonima paziente; lo psichiatra Secondo Filetti
è anche – per Clara/Robert – Franz Richarz, lo psichiatra che ebbe in cura
Robert Schumann nel manicomio di Endenich.
“Il quarto dito di Clara”
Scritto e diretto da Luca
Archibugi, protagonisti Pippo Di Marca e Veronica Zucchi
L’evento teatrale “Il quarto dito di Clara” è ispirato alla vita
e all’opera di Robert e Clara Schumann e al progressivo scivolamento del grande
musicista – che alcuni ritengono “il più grande di tutti i tempi” – nella
follia, a causa di disturbi nervosi provocati forse dalla sifilide,
dall’alcolismo, o da un grave disturbo bipolare, il tutto unito a una
melanconia senza rimedio. Robert si fascia l’anulare della mano destra per un
lungo periodo, nell’intento di rafforzarlo, ma il quarto dito rimane
semiparalizzato.
Non
gli resta – come ripiego paradossale – che la composizione. Nel titolo, il
quarto dito è quello di Clara: l’autore e regista, infatti, crea
un’identificazione fra Robert e Clara Schumann. Nell’opera, accanto a Robert
Schumann, emerge una gigantesca figura di donna, Clara Wieck: grande pianista –
la più celebre dell’Ottocento – divenuta moglie di Robert, dopo un tormentato
amore osteggiato dal padre di lei. Dopo le vessazioni del padre, una volta
divenuta moglie, non terminano per lei frustrazioni e dolori. Le viene impedito
di suonare il pianoforte quando Schumann compone, di andare in tournée, di dare
concerti – ha otto figli – e quando riesce ugualmente ad allontanarsi, il
marito si fa prendere dalla malinconia e si dà al bere.
Robert
viene internato in manicomio e due anni dopo, senza che Clara, che intanto vive
sotto lo stesso tetto di Johannes Brahms, sia mai andata a trovarlo, si lascia
morire di inedia. Per gli storiografi, a tutt’oggi, è assai improbabile che la
relazione fra Clara Schumann e Johannes Brahms fosse altro che platonica. In
questa rappresentazione l’unione di Robert e Clara appare come una sorta di
unione mistica. “Il mio personaggio” – spiega una dei due protagonisti,
Veronica Zucchi (Clara/Robert), in una recente intervista – è quello di una
anonima paziente psichiatrica che ritiene di essere Robert e Clara insieme:
vive come ingabbiata in una sorta di amore cristallizzato, esclusivo, che però
non è solo una prigione, ma è soprattutto una salvezza, un’illusione salvifica.
Ad
un certo punto, lo psichiatra che l’ha in cura, Secondo Filetti (Pippo Di
Marca), sprofonderà anch’egli in un’illusione di bellezza eterna: “Quel grande
amore che lei si è addossata sfida il deperimento, la caducità, e lei, insieme,
porta i due amanti in salvo, liberati dal fardello di una vita troppo breve. Io
non riesco a guardarla e a rimanere passibile. Lei ha ragione, vorrei
sprofondare anch’io in questa illusione (…) E che tutti diventino Clara e
Robert, l’amore, l’amicizia, il conforto”. Ecco, da un lato l’autore e regista
Luca Archibugi ha voluto restituire l’eccezionalità di questo amore;
dall’altro, tutto il testo è almeno doppio, raddoppiato o, addirittura,
triplicato: Clara è anche Robert e l’anonima paziente; lo psichiatra Secondo Filetti
è anche – per Clara/Robert – Franz Richarz, lo psichiatra che ebbe in cura
Robert Schumann nel manicomio di Endenich.
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