L'HO VISTA PRIMA IO
Regia di Simone Fabiani e Alessandro Giorgi
Supervisione artistica Sabrina Pellegrino
Con Simone Fabiani, Irene de Gaetano Alessandro Giorgi
L'HO VISTA PRIMA IO
Regia di Simone Fabiani e Alessandro Giorgi
Supervisione artistica Sabrina Pellegrino
Con Simone Fabiani, Irene de Gaetano Alessandro Giorgi
MUSICARELLO SHOCK
di Matilde D’accardi
con Valentina De Giovanni
“Farai come ti pare quando ti sposerai!”. Italia 1960. In
una piccola cittadina di provincia, una ragazza prigioniera delle rigide regole
paterne sogna di essere salvata dall’amore, quello meraviglioso e senza fine di
cui parlano le canzoni. Ma solo una volta sposata scoprirà chi è e cosa vuole
davvero, e imparerà a lottare per la sua realizzazione. Liberamente ispirato
alla vera storia della prima divorziata d’Italia e di molte altre delle nostre
madri, questo monologo musicale racconta le vicende, i pensieri e le emozioni
di molte ragazze del Boom, che suonano ancora tremendamente attuali. Attraverso
brani che hanno reso immortale la musica leggera italiana negli anni ‘50, ‘60 e
dei primi ‘70, Musicarello shock ricostruirà con ironia e nostalgia
la battaglia per la legalizzazione del divorzio nel Bel Paese – che nel 2020 ha
compiuto il suo settantesimo anniversario – e la trasformazione di mentalità
che ha aperto la strada all’emancipazione delle italiane e al riconoscimento
dei loro diritti.
Note sullo spettacolo
Musicarello shock racconta di una voce di donna che si
libera. All’inizio è interiore, casalinga, inconsapevole, ma poi si
esteriorizza, diventa pubblica, politica. La vicenda di Nora, restituita da
Valentina De Giovanni, ripercorre indirettamente gli eventi sociali, culturali
e istituzionali che hanno caratterizzato la storia della modernizzazione
italiana e che, secondo quanto scrive Fiamma Lussana nel saggio L’Italia
del divorzio, hanno portato l’opinione pubblica ad abbandonare formalmente il
principio di indissolubilità del matrimonio. Oltre a ciò, lo spettacolo prova a
fare luce su uno scarto di pensiero fondamentale per l’emancipazione femminile,
ossia la messa in dubbio del mito dell’amore monogamico romantico come unico
destino degno nella vita di una donna: un mito che in quegli anni veniva
rinnovato, modellato e immortalato proprio dalla musica leggera nostrana.
Infatti, in Musicarello shock le canzoni pop, proprio come nel genere
cinematografico cui fa riferimento il titolo, costituiscono il vero fulcro
drammaturgico e spettacolare. Non fanno solo da contraltare agli eventi della
trama ma aprono, conducono e portano a compimento la narrazione, inscenando una
storia parallela e facendo suonare i sentimenti della collettività. Cantando,
De Giovanni ci invita a ricordare le parole d’amore con cui sono cresciute le
nostre madri e a riflettere su questa eredità, oltre che a divertirci ed
emozionarci di nuovo insieme, nella vicinanza fisica. Perché, e questo è un
messaggio fondamentale dello spettacolo, la musica è un mezzo espressivo e
comunicativo straordinario, che anche nei momenti di più grande repressione e
sofferenza può aiutarci a veicolare all’esterno le nostre emozioni e a sentirci
gli uni con gli altri.
IN EXITU
dall’omonimo romanzo di Giovanni Testori nell’adattamento,
interpretazione e regia di Roberto Latini musiche e suono Gianluca Misiti luci
e direzione tecnica Max Mugnai collaborazione tecnica Riccardo Gargiulo, Marco
Mencacci, Gianluca Tomasella produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi con la
collaborazione di Armunia Festival Costa degli Etruschi Associazione Giovanni
Testori, Napoli Teatro Festival Italia con il contributo di Regione Toscana e
MiBAC
Roberto Latini dà vita alle
parole dell’omonimo romanzo di Giovanni Testori (1988). Il testo racconta
l’uscita di scena di una vita consumata in evasione, in eversione. La vita di
Gino Riboldi, un giovane tossico ridotto alla prostituzione, in una Milano intrisa
di dolore e solitudine. La narrazione cede il passo alla forma e si sostanzia
su un piano raffinatamente linguistico.
Il corpo-testo testoriano pulsa parole che sono sangue. La
lingua è ferita dalla sintassi, diventa linguaggio. Il corpo-testo è le sue
articolazioni, un movimento incessante, irrefrenabile, inesorabile. Lo si
potrebbe percepire come indipendente. Non posso contrastarlo, organizzarlo,
prevederlo. Devo permettere la sua intrattenibilità, lasciarlo andare via dal
suo stesso corpo. Constatare lo strappo metrico delle sillabe, di ogni frase,
del pensiero. Le parole abbandonano il testo, continuamente. Non attraverso di
me, ma attraversandomi. Ho bisogno di non difendermi. E non potrei, non posso.
Respiro. E non è l’attore ad agire la scena. Respira. L’attore in scena
reagisce alla scena. Non posso recitare la provvisorietà di ogni passo, il
disequilibrio. Non posso impararlo. Devo permettere il fluire. La sconfitta.
Cadere. E non disturbare.
LINGUA MATRIGNA
Da L’analfabeta di Agota Kristof
con Patrizia Labianca
Progetto e regia Marinella Anaclerio
Organizzazione Tiziana Laurenza
Comunicazione Antonella Carone Daniele Pratolini
E’ notte, Agota è sola nella sua casa con un registratore e, come Krapp o come
un medico legale
durante un’autopsia, passa a setaccio la sua vita…o meglio
la misura…nelle sue perdite e nelle sue
conquiste. Assistiamo al suo tirar le somme sulla sua vita,
la vita di una profuga che mai è riuscita a
smettere di pensare di essere fuori luogo, fuori dal suo
luogo.
Agota Kristof, una tra le più importanti ed amate scrittrici
di lingua francese è nata in Ungheria nel
1935. Il padre è un insegnante, l’unico insegnante del suo
piccolo paese. A 14 anni entra in collegio.
Nel 1956 lascia clandestinamente l’Ungheria, costretta ad
abbandonare la sua terra natale insieme
al marito e figlia neonata, quando l’Armata rossa interviene
in Ungheria per sedare le rivolte
popolari. Nella fuga porta con sé solo due borse: una di
pannolini e biberon e l’altra per i suoi
vocabolari. Con la perdita della Madre Patria, si diventa
orfani della Madre Lingua. “ come
spiegargli, senza offenderlo, e con le poche parole che so
di francese, che il suo bel paese non è altro
che un Deserto, per noi rifugiati, un deserto che dobbiamo
attraversare per giungere a quella che
chiamiamo “ integrazione”, “assimilazione”?.
In questa autobiografia scarna ma precisa, com’è il suo
stile, la Kristof analizza e racconta la natura
del suo disagio più grande nella condizione di profuga: la
perdita di identità intellettuale. Incapace di
esprimersi e di capire cosa le succede attorno, non
conoscendo la lingua francese, si definisce muta
e sorda. Ed è questo che la messa in scena vuole urlare in
silenzio allo spettatore…. Qual è lo stato
d’animo di urgenza comunicativa non sorretta da mezzi
espressivi adeguati, l’inquietudine che prova
chi approda da profugo in terra straniera, chi da anziano
non è messo nelle condizioni di capire i
nuovi mezzi di comunicazione pur costretto ad usarli, o
ancora più semplicemente l’incomunicabilità
tra generazioni differenti, come tra lei e sua madre….
Questa esperienza, dalla Kristof, raccontata con tanta
semplicità e profondità, è stata vissuta anche
da scrittori come Samuel Beckett, Irene Nemirovskij, Joseph
Conrad, autori che nel ‘900 hanno alla
fine conquistato un posto di rilievo nella letteratura della
loro… lingua Matrigna.
La Nostra Analfabeta, oramai tradotta in 18 lingue,
considerata una delle maggiori autrici
contemporanee di lingua francese, parla al pubblico per
ricordarsi quanta strada ha percorso prima
di avere la gratificazione di vedere le proprie opere
tradotte da altri in tutto il mondo. Lo fa per per
ricordare ed incoraggiare quanti come lei, orfani di Terra e
di Lingua devono ricominciare in età
adulta con l’alfabeto della Lingua Matrigna. Ogni parola ha
una radice e questa germoglia in noi sin
dalla vita intrauterina, ascoltando il mondo che ci
circonda… strappati da quel mondo si cerca di
restare a galla in acque sconosciute. Come sopravvivere
senza disintegrarsi ma integrandosi? Ed
proprio lo Scrivere che, in esilio, diventa il suo mezzo per
navigare nelle acque sconosciute di una
nuova cultura, il suo modo per sopportare gli anni tanto
odiati, quelli in una fabbrica di orologi dove
sente soltanto il ritmo delle macchine e a quel ritmo deve
adeguarsi. E decide di farlo proprio nella
lingua francese, che così tanto prima aveva detestato:
leggere e scrivere è, per lei, “una malattia”,
un bisogno impellente.
“[…] questa lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è
stata imposta dal caso, dalle circostanze. So
che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori
francesi di nascita. Ma scriverò come
meglio potrò. È una sfida. La sfida di un Analfabeta.”