Teatro Palladium 3 Novembre 2016
VECCHI TEMPI
di Harold Pinter
Regia di Pippo Di Marca
Con Fabrizio Croci, Francesca Fava, Anna Paola Vellaccio
Scene e costumi Laboratorio Florian Metateatro
Assistente alla regia Diletta Buschi
Direttrice di scena Marilisa D’Amico
Produzione Giulia Basel, Massimo Vellaccio
Florian Metateatro-Centro di produzione teatrale
In Vecchi Tempi ci sono tre personaggi: una coppia londinese sui quarant’anni, Deeley e Kate; e una vecchia amica di quest’ultima, Anna, anche lei sui quaranta, rimasta lontana per oltre vent’anni dall’amica di gioventù e dall’Inghilterra, e che ora viene a far visita a Kate e al di lei marito. All’apparenza una commedia: un vacuo e “nostalgico” incontro durante il quale “ricordare” i Vecchi Tempi. Ma Pinter è un autore non facile, ambiguo, anche “astuto”: utilizza il linguaggio corrente caricandolo di ambiguità, di pause, di silenzi, con cui spesso crea effetti di surrealtà. Viene dopo Beckett e il teatro dell’assurdo e ne subisce in parte l’influenza. Si muove, dunque, solo in apparenza, su un terreno naturalistico, realistico (anche se, beninteso, c’è pure questo). Qui, in Vecchi Tempi, mi pare che questo climax sia presente forse più che in altri testi. È pieno di pause, di lunghi silenzi, di lapsus, in un’altalena di scene “al presente” montate a ridosso di scene “al passato”, come fossero flash-back da sceneggiatura cinematografica. Nessuno dei personaggi ha una “memoria” oggettiva del proprio passato; ciò che ciascuno di essi ricorda è molto soggettivo e diverso dal ricordo degli altri. Niente, o quasi, coincide. Sono loro ad esser gravemente smemorati, malati o disturbati nel ricordo? Oppure è il tempo che è in sé bugiardo, inaffidabile? Oppure la nevrosi dell’uomo contemporaneo rappresentata incapace di esprimere una qualsivoglia certezza, irretita com’è in una dimensione sentimentale falsa, una sorta di ipocrisia atavica? Oppure, ancora – e questo sembra l’interrogativo più intrinseco al testo – è proprio il linguaggio che è inadeguato a raccontarci la realtà, il tempo, le ragioni profonde di qualunque storia, persino della Storia? (Dalle note di regia di Pippo Di Marca)
Teatro Palladium 3 Novembre 2016VECCHI TEMPI
di Harold Pinter
Regia di Pippo Di Marca
Con Fabrizio Croci, Francesca Fava, Anna Paola Vellaccio
Scene e costumi Laboratorio Florian Metateatro
Assistente alla regia Diletta Buschi
Direttrice di scena Marilisa D’Amico
Produzione Giulia Basel, Massimo Vellaccio
Florian Metateatro-Centro di produzione teatrale
In Vecchi Tempi ci sono tre personaggi: una coppia londinese sui quarant’anni, Deeley e Kate; e una vecchia amica di quest’ultima, Anna, anche lei sui quaranta, rimasta lontana per oltre vent’anni dall’amica di gioventù e dall’Inghilterra, e che ora viene a far visita a Kate e al di lei marito. All’apparenza una commedia: un vacuo e “nostalgico” incontro durante il quale “ricordare” i Vecchi Tempi. Ma Pinter è un autore non facile, ambiguo, anche “astuto”: utilizza il linguaggio corrente caricandolo di ambiguità, di pause, di silenzi, con cui spesso crea effetti di surrealtà. Viene dopo Beckett e il teatro dell’assurdo e ne subisce in parte l’influenza. Si muove, dunque, solo in apparenza, su un terreno naturalistico, realistico (anche se, beninteso, c’è pure questo). Qui, in Vecchi Tempi, mi pare che questo climax sia presente forse più che in altri testi. È pieno di pause, di lunghi silenzi, di lapsus, in un’altalena di scene “al presente” montate a ridosso di scene “al passato”, come fossero flash-back da sceneggiatura cinematografica. Nessuno dei personaggi ha una “memoria” oggettiva del proprio passato; ciò che ciascuno di essi ricorda è molto soggettivo e diverso dal ricordo degli altri. Niente, o quasi, coincide. Sono loro ad esser gravemente smemorati, malati o disturbati nel ricordo? Oppure è il tempo che è in sé bugiardo, inaffidabile? Oppure la nevrosi dell’uomo contemporaneo rappresentata incapace di esprimere una qualsivoglia certezza, irretita com’è in una dimensione sentimentale falsa, una sorta di ipocrisia atavica? Oppure, ancora – e questo sembra l’interrogativo più intrinseco al testo – è proprio il linguaggio che è inadeguato a raccontarci la realtà, il tempo, le ragioni profonde di qualunque storia, persino della Storia? (Dalle note di regia di Pippo Di Marca)
VECCHI TEMPI
di Harold Pinter
Regia di Pippo Di Marca
Con Fabrizio Croci, Francesca Fava, Anna Paola Vellaccio
Scene e costumi Laboratorio Florian Metateatro
Assistente alla regia Diletta Buschi
Direttrice di scena Marilisa D’Amico
Produzione Giulia Basel, Massimo Vellaccio
Florian Metateatro-Centro di produzione teatrale
In Vecchi Tempi ci sono tre personaggi: una coppia londinese sui quarant’anni, Deeley e Kate; e una vecchia amica di quest’ultima, Anna, anche lei sui quaranta, rimasta lontana per oltre vent’anni dall’amica di gioventù e dall’Inghilterra, e che ora viene a far visita a Kate e al di lei marito. All’apparenza una commedia: un vacuo e “nostalgico” incontro durante il quale “ricordare” i Vecchi Tempi. Ma Pinter è un autore non facile, ambiguo, anche “astuto”: utilizza il linguaggio corrente caricandolo di ambiguità, di pause, di silenzi, con cui spesso crea effetti di surrealtà. Viene dopo Beckett e il teatro dell’assurdo e ne subisce in parte l’influenza. Si muove, dunque, solo in apparenza, su un terreno naturalistico, realistico (anche se, beninteso, c’è pure questo). Qui, in Vecchi Tempi, mi pare che questo climax sia presente forse più che in altri testi. È pieno di pause, di lunghi silenzi, di lapsus, in un’altalena di scene “al presente” montate a ridosso di scene “al passato”, come fossero flash-back da sceneggiatura cinematografica. Nessuno dei personaggi ha una “memoria” oggettiva del proprio passato; ciò che ciascuno di essi ricorda è molto soggettivo e diverso dal ricordo degli altri. Niente, o quasi, coincide. Sono loro ad esser gravemente smemorati, malati o disturbati nel ricordo? Oppure è il tempo che è in sé bugiardo, inaffidabile? Oppure la nevrosi dell’uomo contemporaneo rappresentata incapace di esprimere una qualsivoglia certezza, irretita com’è in una dimensione sentimentale falsa, una sorta di ipocrisia atavica? Oppure, ancora – e questo sembra l’interrogativo più intrinseco al testo – è proprio il linguaggio che è inadeguato a raccontarci la realtà, il tempo, le ragioni profonde di qualunque storia, persino della Storia? (Dalle note di regia di Pippo Di Marca)
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