Teatro Tordinona 15 ottobre 2016
“Io che volevo Virginia Woolf”
Scritto e interpretato da Francesca Romana Miceli Picardi
Regia Donatella Corrado
Aiuto Regia Lara Panizzi
Tecnica luci video e audio Lara Panizzi
Teatro Tordinona 15 ottobre 2016“Io che volevo Virginia Woolf”
Scritto e interpretato da Francesca Romana Miceli Picardi
Regia Donatella Corrado
Aiuto Regia Lara Panizzi
Tecnica luci video e audio Lara Panizzi
Un atto unico irriverente, ironico e completamente autobiografico. Una donna di 40 anni che ripercorre il suo “cammino”: da etero sedicenne convinta fino alla sua vera essenza: lesbica, libera e viva. Una storia che abbraccia dilemmi sessuali, dicotomie erotico sentimentali, per poi arrivare al suo cuore pulsante: l’amore.
Quello vero. Quello che ti fa sognare una casa con il giardino e un triciclo giallo. L’amore dei diritti riconosciuti (?) a stralci. A brandelli. L’amore che altro non è che normalità ed evoluzione. Una storia come tante, semplice, diretta, nata per sottolineare una cosa soltanto: la fatica e la felicità di riuscire ad essere sé stessi.
Lo spettacolo si muove attraverso lo stilema del monologo, il ‘per voce sola’. Ma in questo caso, il racconto autobiografico della protagonista e la sua scoperta dell’universo omosessuale femminile, si frammenta in una pluralità di voci, coincidenti non solo con le differenti fasi di crescita ed evoluzione emotiva e sessuale della stessa, ma con quelle di tante altre donne come lei. Che probabilmente albergano in lei. Ed escono alla luce come evocate da quel buco nero che è la memoria. Non più fagocitate dall’oblio, le Donne emergono, raccontano, fanno pazzie di cui non sempre si pentono. Per poi tornare a vivere, docili e risolte, nel corpo di colei che ha il coraggio di compiere quello sforzo che spesso ostacola la crescita personale e i rapporti umani: la scelta consapevole.
Volevo Virginia Woolf, è un inno alla Consapevolezza. E alla consapevolezza dell’Amore, come conquista del sé, del proprio corpo e delle proprie pulsioni. Ma per raggiungere tale grado di evoluzione, ci si addentra per forza di cose in percorsi non sempre ben illuminati.
Il palcoscenico è una tabula rasa. E lo sforzo della protagonista sarà quello di scegliere, ogni volta, di emergere dal buio dell’inconsapevolezza per fissare nuove conquiste di luce.
I coni di luce rendono il palcoscenico una gruviera di emozioni. Attraversando il buio, tra una fase di crescita ad un’altra, la protagonista accoglie in sé la responsabilità del racconto.
Ogni cono di luce rappresenta una tappa. Ma nel buio fitto che pervade tutto il resto, altri elementi concorrono ad alimentare e sostenere i ricordi e il percorso: proiezioni, musica accompagnata da movimenti del corpo non sempre controllati, suoni provenienti da ‘altrove’.
La natura ironica del testo, offre la possibilità di giocare con le proiezioni come fossero talvolta delle piccole, scomode protuberanze del racconto. La protagonista ha un imaginario fervido e la surrealità di ciò che viene proiettato ne è la prova tangibile: come spesso accade, la memoria lascia emergere elementi distorti, ricordi talvolta sbiaditi. Così che, la prima donna che ci ha fatto battere il cuore, da Divina Creatura viene invece ‘risputata fuori’ come una sorta di maschera grottesca. La caricatura di una donna ‘che ci ha fatto battere il cuore’. Eppure, quei ricordi distorti, quelle immagini/proiezioni grottesche, incredibilmente coincidono con la verità. Con una realtà nella quale di già siamo immersi e che, solo evolvendoci, avremmo potuto guardare senza spaventarcene troppo.
Anzi, accogliendola.
Volevo Virginia Woolf diventa quindi a questo punto e per paradosso l’antitesi del ‘per voce sola’: quando i coni di luce collezionati nell’arco di un’esistenza diventano una miriade, allora inevitabilmente tutto intorno si illumina.
E la scelta può compiersi.
La scelta dei coni di luce.
L’occhio di bue è da sempre utilizzato a teatro per estremizzare l’attenzione sul soggetto.
Ma cosa accade se il soggetto in questione non è più quello era all’inizio?
I coni di luce sono giudicanti, ma possono essere facilmente aggirati e costretti a ‘riprodursi’ anziché scomparire. La protagonista in un primo momento è a disagio sotto questo riflettore impertinente, poi però riuscirà a muoversi con nonchalance attraverso i vari fasci di luce che si saranno via via generati dal suo racconto. Come in una foresta di notte rischiarata solo dalla luce della luna.
La scelta delle proiezioni.
Non tutto può essere raccontato a voce.
Non tutto può essere descritto minuziosamente con le parole.
Per questo la funzione delle proiezioni diventa catartica se, quando compaiono, è la stessa protagonista ad esserne colpita per prima. Come quando si guarda una vecchia fotografia e ci si sorprende nel fare fatica a riconoscere la compagna di banco delle elementari. Eppure siamo state fianco a fianco, per anni.
Ogni proiezione sancisce la scoperta di qualcosa di nuovo, una tappa raggiunta.
Un ricordo che non fa più male e che ormai è diventato una figurina in una collezione senza doppioni.
La scelta della musica, dei suoni e dei movimenti del corpo.
Quand’è che abbiamo incominciato a non vergognarci più del nostro corpo, di come siamo fatti, della nostra amabile ‘non perfezione’? La protagonista lo scoprirà mano a mano che la sua consapevolezza aumenta. Quando incomincerà a prendere confidenza con le sue cicatrici, con l’accettazione delle sue pulsioni amorose. E da Essere indefinito, privo di ritmo e grazia, si trasformerà in qualcosa che è Bello per il sol fatto di essere compiuto.
Volevo Virginia Woolf è un’incursione agrodolce nell’universo femminile e nell’ancora poco conosciuto mondo lesbo. E’ un racconto ironico costellato da fallimenti e risalite.
E’ un inno all’Amore. E a tutto ciò che bisogna attraversare senza paracadute, per conquistarlo.
“Io che volevo Virginia Woolf”
Scritto e interpretato da Francesca Romana Miceli Picardi
Regia Donatella Corrado
Aiuto Regia Lara Panizzi
Tecnica luci video e audio Lara Panizzi
Un atto unico irriverente, ironico e completamente autobiografico. Una donna di 40 anni che ripercorre il suo “cammino”: da etero sedicenne convinta fino alla sua vera essenza: lesbica, libera e viva. Una storia che abbraccia dilemmi sessuali, dicotomie erotico sentimentali, per poi arrivare al suo cuore pulsante: l’amore.
Quello vero. Quello che ti fa sognare una casa con il giardino e un triciclo giallo. L’amore dei diritti riconosciuti (?) a stralci. A brandelli. L’amore che altro non è che normalità ed evoluzione. Una storia come tante, semplice, diretta, nata per sottolineare una cosa soltanto: la fatica e la felicità di riuscire ad essere sé stessi.
Lo spettacolo si muove attraverso lo stilema del monologo, il ‘per voce sola’. Ma in questo caso, il racconto autobiografico della protagonista e la sua scoperta dell’universo omosessuale femminile, si frammenta in una pluralità di voci, coincidenti non solo con le differenti fasi di crescita ed evoluzione emotiva e sessuale della stessa, ma con quelle di tante altre donne come lei. Che probabilmente albergano in lei. Ed escono alla luce come evocate da quel buco nero che è la memoria. Non più fagocitate dall’oblio, le Donne emergono, raccontano, fanno pazzie di cui non sempre si pentono. Per poi tornare a vivere, docili e risolte, nel corpo di colei che ha il coraggio di compiere quello sforzo che spesso ostacola la crescita personale e i rapporti umani: la scelta consapevole.
Volevo Virginia Woolf, è un inno alla Consapevolezza. E alla consapevolezza dell’Amore, come conquista del sé, del proprio corpo e delle proprie pulsioni. Ma per raggiungere tale grado di evoluzione, ci si addentra per forza di cose in percorsi non sempre ben illuminati.
Il palcoscenico è una tabula rasa. E lo sforzo della protagonista sarà quello di scegliere, ogni volta, di emergere dal buio dell’inconsapevolezza per fissare nuove conquiste di luce.
I coni di luce rendono il palcoscenico una gruviera di emozioni. Attraversando il buio, tra una fase di crescita ad un’altra, la protagonista accoglie in sé la responsabilità del racconto.
Ogni cono di luce rappresenta una tappa. Ma nel buio fitto che pervade tutto il resto, altri elementi concorrono ad alimentare e sostenere i ricordi e il percorso: proiezioni, musica accompagnata da movimenti del corpo non sempre controllati, suoni provenienti da ‘altrove’.
La natura ironica del testo, offre la possibilità di giocare con le proiezioni come fossero talvolta delle piccole, scomode protuberanze del racconto. La protagonista ha un imaginario fervido e la surrealità di ciò che viene proiettato ne è la prova tangibile: come spesso accade, la memoria lascia emergere elementi distorti, ricordi talvolta sbiaditi. Così che, la prima donna che ci ha fatto battere il cuore, da Divina Creatura viene invece ‘risputata fuori’ come una sorta di maschera grottesca. La caricatura di una donna ‘che ci ha fatto battere il cuore’. Eppure, quei ricordi distorti, quelle immagini/proiezioni grottesche, incredibilmente coincidono con la verità. Con una realtà nella quale di già siamo immersi e che, solo evolvendoci, avremmo potuto guardare senza spaventarcene troppo.
Anzi, accogliendola.
Volevo Virginia Woolf diventa quindi a questo punto e per paradosso l’antitesi del ‘per voce sola’: quando i coni di luce collezionati nell’arco di un’esistenza diventano una miriade, allora inevitabilmente tutto intorno si illumina.
E la scelta può compiersi.
La scelta dei coni di luce.
L’occhio di bue è da sempre utilizzato a teatro per estremizzare l’attenzione sul soggetto.
Ma cosa accade se il soggetto in questione non è più quello era all’inizio?
I coni di luce sono giudicanti, ma possono essere facilmente aggirati e costretti a ‘riprodursi’ anziché scomparire. La protagonista in un primo momento è a disagio sotto questo riflettore impertinente, poi però riuscirà a muoversi con nonchalance attraverso i vari fasci di luce che si saranno via via generati dal suo racconto. Come in una foresta di notte rischiarata solo dalla luce della luna.
La scelta delle proiezioni.
Non tutto può essere raccontato a voce.
Non tutto può essere descritto minuziosamente con le parole.
Per questo la funzione delle proiezioni diventa catartica se, quando compaiono, è la stessa protagonista ad esserne colpita per prima. Come quando si guarda una vecchia fotografia e ci si sorprende nel fare fatica a riconoscere la compagna di banco delle elementari. Eppure siamo state fianco a fianco, per anni.
Ogni proiezione sancisce la scoperta di qualcosa di nuovo, una tappa raggiunta.
Un ricordo che non fa più male e che ormai è diventato una figurina in una collezione senza doppioni.
La scelta della musica, dei suoni e dei movimenti del corpo.
Quand’è che abbiamo incominciato a non vergognarci più del nostro corpo, di come siamo fatti, della nostra amabile ‘non perfezione’? La protagonista lo scoprirà mano a mano che la sua consapevolezza aumenta. Quando incomincerà a prendere confidenza con le sue cicatrici, con l’accettazione delle sue pulsioni amorose. E da Essere indefinito, privo di ritmo e grazia, si trasformerà in qualcosa che è Bello per il sol fatto di essere compiuto.
Volevo Virginia Woolf è un’incursione agrodolce nell’universo femminile e nell’ancora poco conosciuto mondo lesbo. E’ un racconto ironico costellato da fallimenti e risalite.
E’ un inno all’Amore. E a tutto ciò che bisogna attraversare senza paracadute, per conquistarlo.
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