Teatro Studio Uno, 23 Gennaio 2016
VIVIAMOCI
Di e con Giorgia “Gigia” Mazzucato
Non potete guardare “Viviamoci”, lo spettacolo-monologo di Giorgia “Gigia” Mazzucato se non siete in grado di immaginare la vostra barca personale, quella su cui navigate ogni giorno, quella con cui affrontate i flutti, quella che vi porta su spiagge meravigliose o contro scogli affilati. Non potete seguire la giovane attrice nella sua pièce se non potete colorare lo scafo con le emozioni più intense, le vele con le sensazioni più vere, il timone con le paure più reali. Perché “Viviamoci” è un viaggio tra le decine di sfumature del blu, un’immersione nella vita che inzuppa i vestiti, bagna la bocca di acqua dolce e salata, impregna le ossa di stupore e sorpresa.
Gigia Mazzucato si avventura subito oltre lo specchio, varca la soglia tra il reale e fantastico, l’uscio che la separa da un mondo che è un brodo primordiale di vita e meraviglia. Quando il pianto di gioia di una madre guerriera si spegne e diventa solo una linea dritta sul viso, sua figlia inizia a raccontare un sogno, segue un sentiero di mattoni gialli fatti di giochi di parole, di assonanze e paradossi, tesse la tela di favole comiche incrociando i fili raccolti in terra, gettati all’aria da chi non sa più cosa farsene. C’è, nel gioco della bambina, tutto il potenziale che solo lo stupore per la vita può iniettare nelle vene e l’attrice, con i suoi occhi furbi e lo strascico veneto, è in grado di inocularlo con dolcezza e bravura anche nel pubblico.
E quando il sorriso riappare sul volto della madre, un nuovo viaggio ha inizio. Il pensiero scivola lungo il cordone ombelicale della memoria, che la conduce a un utero caldo, a un ventre confortevole e mai dimenticato: quello delle origini. Perché Viviamoci è anche l’abbraccio delle proprie radici, che affondano nelle nostre ossa fino al midollo e si nutrono dei nostri ricordi e delle nostre emozioni. È vero che dalla prua della nostra barca colorata guardiamo il futuro attraverso un binocolo caleidoscopico, ma le assi della chiglia, la ruota del timone, il parapetto che ci protegge dal cadere in acqua sono costituiti di frammenti del passato, sono formati dal legno delle nostre origini.
La scena è semplice, nuda, le luci cambiano seguendo le emozioni e i personaggi interpretati, non c’è nulla di superfluo, nulla di ridondante. Giorgia “Gigia” Mazzucato ha la bravura di solcare quella scena con un piede leggero, di scivolare sulle sfumature della vita, dalla gioia alla tristezza, dalla rabbia al dolore senza calcare troppo, lasciando un’orma lieve nella sabbia e nello spettatore. Ma, come per lo spettacolo “Guerriere. Tre donne nella grande guerra”, finalista al Fringe Festival 2015 di Roma, quell’impronta è ancora lì.
Teatro Studio Uno, 23 Gennaio 2016VIVIAMOCI
Di e con Giorgia “Gigia” Mazzucato
Non potete guardare “Viviamoci”, lo spettacolo-monologo di Giorgia “Gigia” Mazzucato se non siete in grado di immaginare la vostra barca personale, quella su cui navigate ogni giorno, quella con cui affrontate i flutti, quella che vi porta su spiagge meravigliose o contro scogli affilati. Non potete seguire la giovane attrice nella sua pièce se non potete colorare lo scafo con le emozioni più intense, le vele con le sensazioni più vere, il timone con le paure più reali. Perché “Viviamoci” è un viaggio tra le decine di sfumature del blu, un’immersione nella vita che inzuppa i vestiti, bagna la bocca di acqua dolce e salata, impregna le ossa di stupore e sorpresa.
Gigia Mazzucato si avventura subito oltre lo specchio, varca la soglia tra il reale e fantastico, l’uscio che la separa da un mondo che è un brodo primordiale di vita e meraviglia. Quando il pianto di gioia di una madre guerriera si spegne e diventa solo una linea dritta sul viso, sua figlia inizia a raccontare un sogno, segue un sentiero di mattoni gialli fatti di giochi di parole, di assonanze e paradossi, tesse la tela di favole comiche incrociando i fili raccolti in terra, gettati all’aria da chi non sa più cosa farsene. C’è, nel gioco della bambina, tutto il potenziale che solo lo stupore per la vita può iniettare nelle vene e l’attrice, con i suoi occhi furbi e lo strascico veneto, è in grado di inocularlo con dolcezza e bravura anche nel pubblico.
E quando il sorriso riappare sul volto della madre, un nuovo viaggio ha inizio. Il pensiero scivola lungo il cordone ombelicale della memoria, che la conduce a un utero caldo, a un ventre confortevole e mai dimenticato: quello delle origini. Perché Viviamoci è anche l’abbraccio delle proprie radici, che affondano nelle nostre ossa fino al midollo e si nutrono dei nostri ricordi e delle nostre emozioni. È vero che dalla prua della nostra barca colorata guardiamo il futuro attraverso un binocolo caleidoscopico, ma le assi della chiglia, la ruota del timone, il parapetto che ci protegge dal cadere in acqua sono costituiti di frammenti del passato, sono formati dal legno delle nostre origini.
La scena è semplice, nuda, le luci cambiano seguendo le emozioni e i personaggi interpretati, non c’è nulla di superfluo, nulla di ridondante. Giorgia “Gigia” Mazzucato ha la bravura di solcare quella scena con un piede leggero, di scivolare sulle sfumature della vita, dalla gioia alla tristezza, dalla rabbia al dolore senza calcare troppo, lasciando un’orma lieve nella sabbia e nello spettatore. Ma, come per lo spettacolo “Guerriere. Tre donne nella grande guerra”, finalista al Fringe Festival 2015 di Roma, quell’impronta è ancora lì.
VIVIAMOCI
Di e con Giorgia “Gigia” Mazzucato
Non potete guardare “Viviamoci”, lo spettacolo-monologo di Giorgia “Gigia” Mazzucato se non siete in grado di immaginare la vostra barca personale, quella su cui navigate ogni giorno, quella con cui affrontate i flutti, quella che vi porta su spiagge meravigliose o contro scogli affilati. Non potete seguire la giovane attrice nella sua pièce se non potete colorare lo scafo con le emozioni più intense, le vele con le sensazioni più vere, il timone con le paure più reali. Perché “Viviamoci” è un viaggio tra le decine di sfumature del blu, un’immersione nella vita che inzuppa i vestiti, bagna la bocca di acqua dolce e salata, impregna le ossa di stupore e sorpresa.
Gigia Mazzucato si avventura subito oltre lo specchio, varca la soglia tra il reale e fantastico, l’uscio che la separa da un mondo che è un brodo primordiale di vita e meraviglia. Quando il pianto di gioia di una madre guerriera si spegne e diventa solo una linea dritta sul viso, sua figlia inizia a raccontare un sogno, segue un sentiero di mattoni gialli fatti di giochi di parole, di assonanze e paradossi, tesse la tela di favole comiche incrociando i fili raccolti in terra, gettati all’aria da chi non sa più cosa farsene. C’è, nel gioco della bambina, tutto il potenziale che solo lo stupore per la vita può iniettare nelle vene e l’attrice, con i suoi occhi furbi e lo strascico veneto, è in grado di inocularlo con dolcezza e bravura anche nel pubblico.
E quando il sorriso riappare sul volto della madre, un nuovo viaggio ha inizio. Il pensiero scivola lungo il cordone ombelicale della memoria, che la conduce a un utero caldo, a un ventre confortevole e mai dimenticato: quello delle origini. Perché Viviamoci è anche l’abbraccio delle proprie radici, che affondano nelle nostre ossa fino al midollo e si nutrono dei nostri ricordi e delle nostre emozioni. È vero che dalla prua della nostra barca colorata guardiamo il futuro attraverso un binocolo caleidoscopico, ma le assi della chiglia, la ruota del timone, il parapetto che ci protegge dal cadere in acqua sono costituiti di frammenti del passato, sono formati dal legno delle nostre origini.
La scena è semplice, nuda, le luci cambiano seguendo le emozioni e i personaggi interpretati, non c’è nulla di superfluo, nulla di ridondante. Giorgia “Gigia” Mazzucato ha la bravura di solcare quella scena con un piede leggero, di scivolare sulle sfumature della vita, dalla gioia alla tristezza, dalla rabbia al dolore senza calcare troppo, lasciando un’orma lieve nella sabbia e nello spettatore. Ma, come per lo spettacolo “Guerriere. Tre donne nella grande guerra”, finalista al Fringe Festival 2015 di Roma, quell’impronta è ancora lì.
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