Bruciata….Vive! - (05/09/14)


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Una donna racconta la sua vita. Supera il pudore che viene da millenni di vissuto in un villaggio che è tutto il suo mondo, come lo è stato quello di sua madre, quello di sua nonna, senza futuro che non sia identico, ritmato dalla condizione femminile. Racconta la sua vita perché altre donne possano, anche solo, pensare ad altro dalla loro condizione di donna come jattura! Dentro ogni parola c’è dolore, rassegnazione, sottomissione, perché così è, e non potrebbe essere altrimenti in una vita dominata dal genere maschile, in un mondo dove “una pecora ha più valore di una figlia femmina”. Il mezzo usato per il racconto, lacerante per chi lo ha vissuto e lo rivive, è il medium televisivo, unico capace di raggiungere contemporaneamente, le orecchie, e le coscienze, di milioni di persone. Lo spettacolo mette in scena l’indifferenza, l’allontanamento, per mancanza di prossimità, della realtà dal mezzo stesso e dalle parole. La televisione ci ha abituati al racconto dell’orrore in diretta. Scene di guerra e di guerriglia, uccisioni e morte in diretta, corpi che sussultano negli ultimi singulti di vita e che equipariamo, mentalmente, alle morti simulate dei tanti film; “non avere paura, il sangue è pomodoro”! la realtà è diversa; il padre che piange 5 piccoli figli uccisi da una bomba intelligente è una notizia, non siamo noi, non ci è vicino, non ci appartiene, non ci sfiora e, comunque, abbiamo la possibilità, nel momento in cui la coscienza incomincia a farsi sentire, nel momento in cui iniziamo, pericolosamente, a pensare all’identificazione con quel padre, semplicemente premendo un bottone, di cambiare canale, di guardare altro. L’alibi è che “la vita è già difficile da vivere normalmente, se ci mettiamo anche la coscienza, allora…”, e la vita ci costringe a scelte continue, e spesso scegliamo la via più facile; ci lasciamo prendere dagli eventi immediati, che ci coinvolgono intimamente, determinando una scala di valori che ha come unità di misura noi stessi. Due eventi in scena, che a volte coincidono senza potere esprimere la stessa emozione, una vita ordinaria e una morte straordinaria; una libertà di scelta che è una condanna a morte contrapposta ad una libertà di scelta che è fuga dall’emozione, che è normalità, banale ma rassicurante, disimpegnata. Anche lo spettatore può scegliere se rivivere parole cariche di botte, sangue, fuoco, amore, orrore, o abbandonarsi alla normalità rassicurante della vita piatta, senza sorprese, il conto alla rovescia in attesa che si spenga la luce. Definitivamente. Ridere all’esibizione di una intimità che è la norma, rassicurante; di una intimità che non si mostra, ma proprio per questo è più intima.
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Una donna racconta la sua vita. Supera il pudore che viene da millenni di vissuto in un villaggio che è tutto il suo mondo, come lo è stato quello di sua madre, quello di sua nonna, senza futuro che non sia identico, ritmato dalla condizione femminile. Racconta la sua vita perché altre donne possano, anche solo, pensare ad altro dalla loro condizione di donna come jattura! Dentro ogni parola c’è dolore, rassegnazione, sottomissione, perché così è, e non potrebbe essere altrimenti in una vita dominata dal genere maschile, in un mondo dove “una pecora ha più valore di una figlia femmina”. Il mezzo usato per il racconto, lacerante per chi lo ha vissuto e lo rivive, è il medium televisivo, unico capace di raggiungere contemporaneamente, le orecchie, e le coscienze, di milioni di persone. Lo spettacolo mette in scena l’indifferenza, l’allontanamento, per mancanza di prossimità, della realtà dal mezzo stesso e dalle parole. La televisione ci ha abituati al racconto dell’orrore in diretta. Scene di guerra e di guerriglia, uccisioni e morte in diretta, corpi che sussultano negli ultimi singulti di vita e che equipariamo, mentalmente, alle morti simulate dei tanti film; “non avere paura, il sangue è pomodoro”! la realtà è diversa; il padre che piange 5 piccoli figli uccisi da una bomba intelligente è una notizia, non siamo noi, non ci è vicino, non ci appartiene, non ci sfiora e, comunque, abbiamo la possibilità, nel momento in cui la coscienza incomincia a farsi sentire, nel momento in cui iniziamo, pericolosamente, a pensare all’identificazione con quel padre, semplicemente premendo un bottone, di cambiare canale, di guardare altro. L’alibi è che “la vita è già difficile da vivere normalmente, se ci mettiamo anche la coscienza, allora…”, e la vita ci costringe a scelte continue, e spesso scegliamo la via più facile; ci lasciamo prendere dagli eventi immediati, che ci coinvolgono intimamente, determinando una scala di valori che ha come unità di misura noi stessi. Due eventi in scena, che a volte coincidono senza potere esprimere la stessa emozione, una vita ordinaria e una morte straordinaria; una libertà di scelta che è una condanna a morte contrapposta ad una libertà di scelta che è fuga dall’emozione, che è normalità, banale ma rassicurante, disimpegnata. Anche lo spettatore può scegliere se rivivere parole cariche di botte, sangue, fuoco, amore, orrore, o abbandonarsi alla normalità rassicurante della vita piatta, senza sorprese, il conto alla rovescia in attesa che si spenga la luce. Definitivamente. Ridere all’esibizione di una intimità che è la norma, rassicurante; di una intimità che non si mostra, ma proprio per questo è più intima.
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